La carta d’identità rivela il 1926 come anno di nascita, ma a sentirlo parlare non si direbbe. Un turbinio di informazioni, di dettagli, di ragionamenti e di richiami dotti, volti a spiegare -per l’intervista a «Vaccari news»- la sua attività e il suo modo di concepire l’arte.
“Mio padre -dice Lamberto Pignotti, una laurea in Scienze economiche e commerciali, già docente al Dams di Bologna e collaboratore per la Rai e per diverse testate giornalistiche- era pittore; io vengo dalla poesia e dalla letteratura. Mi sono sempre appassionato agli oggetti piccoli, magari associandoli al fumetto, altra mia passione, per arrivare ad una rappresentazione pop, che è parzialmente parallela nei riferimenti mediatici ma divergente negli intenti sociali e ideologici. Portando avanti, allo stesso tempo, un’idea di contrapposizione al gigantismo che proveniva dagli Stati Uniti. La mia idea è che piccolo non significhi necessariamente minore, questo dipende dai contenuti”.
Da qui il suo interesse per i “francobolli”, come quelli esposti nella recente mostra di Brescia, dove vere cartevalori postali sono state arricchite con commenti e battute... “Non sono un collezionista, ma un raccoglitore. Quando ero piccolo, instradato da mio padre, avevo cominciato a mettere da parte un francobollo per ogni Stato, ma la cosa è finita presto. Dei francobolli mi attirano le dimensioni, questo modo di sintetizzare in poco spazio una serie di elementi. Qualcuno ha definito i miei «francobolli» come «minuscografia»; diventano poesia visiva. In ogni caso, seguo anche altri ambiti, come i santini, i calendarietti dei parrucchieri, le fotografie, i rebus. Con quest’ultimo genere partecipo ad una esposizione all’Istituto nazionale per la grafica di Roma, che verrà inaugurata il 16 dicembre alle ore 16.30...”.
Torniamo ai “francobolli”; perché associarvi messaggi che all’apparenza non mostrano nessun legame con la vignetta? “Mi interessa il discorso dello spaesamento, della decontestualizzazione: Marcel Duchamp amava togliere gli oggetti dal proprio ambito per colpire; così l’orinatoio diventa opera da esporre in un museo”.
A quando risalgono i suoi primi lavori? “Bisogna andare indietro agli anni Sessanta, ed ebbero reazioni contrastanti, tanto che qualche volta sono stati diffusi un po’ di contrabbando, come avvenne a Pechino all’epoca di Mao. Da una parte c’erano giornali che suggerivano ai lettori di non perdere tempo con le mie iniziative, dall’altra la critica di un certo livello ha mostrato una discreta attenzione”.
Quanti saranno quelli che ha fatto? “Non ne ho idea. I primi utilizzano l’«Italia turrita» cui ho aggiunto frasi sconclusionate, ma poi ho impiegato esemplari di altri Paesi, come Stati Uniti, Francia, Regno Unito... Alcuni li ho ripresi negli ultimi tempi, proponendoli non più dal vero ma rappresentandoli su tela emulsionata. Devo fare sempre cose che mi divertono e diverse; non sono un perfezionista”.