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editor Fabio Bonacina

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Conservata all’Archivio segreto vaticano, la copia della lettera è proposta a Treviso, alla mostra sul tesoro dei mongoli

La mostra è stata prorogata all'11 maggio
La mostra è stata prorogata all'11 maggio

I rapporti tra le diverse fedi: nel suo viaggio oltre l’Atlantico, Benedetto XVI si è soffermato anche su tale aspetto. L’approccio è stato decisamente diverso da quello assunto da un suo predecessore, Innocenzo IV. Nel 1245 da Lione, dove si era rifugiato, mandò i frati francescani Giovanni da Pian del Carpine e Stefano di Boemia alla corte del gran khan (nel frattempo le truppe asiatiche avevano già raggiunto l’Europa), per chiedergli di fermarsi e convertirsi.

La risposta, firmata dal terzo imperatore della casata mongola, Güyük, è ora conservata all’Archivio segreto vaticano, ed una riproduzione è offerta, insieme alla traduzione, alla mostra “Gengis khan e il tesoro dei mongoli”, allestita fino all’11 maggio presso la casa dei Carraresi di Treviso. Perché una risposta c’è stata: gli inviati del pontefice raggiunsero la meta nella tarda estate del 1246 e nel novembre successivo partirono con la replica, guadagnando la città francese nell’autunno del 1247.

Accanto alla preziosa missiva, che testimonia i più difficili rapporti tra Occidente ed Oriente di otto secoli fa, figurano altri reperti, come il testamento di Marco Polo. Il viaggiatore veneziano, protagonista del “Milione”, nel 1271 fece parte della spedizione inviata da Gregorio XI al nuovo gran khan, Qubilai, nipote di Gengis e fondatore della dinastia cinese Yuan.

Complessivamente, i reperti sotto teca sono quasi quattrocento, databili fra il 907 e il 1368. È il periodo in cui la Cina venne dominata da minoranze etniche, le stirpi Liao, Xi Xia e Jin, rispettivamente guidate da sovrani di origine mongola, turco-tibetana e tunguso-tartara. Tutte giunte dalle regioni situate a nord della “Grande muraglia”.

Vi sono cuscini in ceramica, una piccola macina da te, la tipica tenda circolare (dette “ger” o “yurte”), lasciapassare, banconote, bombe esplosive ed oggetti di oreficeria, spesso provenienti da tombe scoperte durante il Novecento.

Ad attirare l’attenzione, oltre a sigilli in ottone, rame o bronzo di varie epoche e ad una scatola per pietra da inchiostro in argento, vi sono otto frecce “fischianti”. Venivano usate dalla popolazione Qidan, appartenente alla signoria Liao e conosciuta come la “civiltà del cavallo”. I dardi sono in osso e ferro e hanno buchi posizionati in punti diversi; una volta scagliati, emettono un sibilo differente. Ogni suono era associato ad un messaggio: si poteva, così, comunicare a distanza.

Le frecce «fischianti», con cui le truppe asiatiche comunicavano a distanza
Le frecce «fischianti», con cui le truppe asiatiche comunicavano a distanza



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