Il ghiaccio è stato sciolto ufficialmente da Usps, l’operatore statunitense, che pochi giorni fa ha annunciato la propria richiesta di non consegnare più a domicilio il sabato. Che l’iter avviato raggiunga il risultato o meno è presto per dirlo, e tutto sommato interessa poco. Quello che importa è l’aver ricordato una situazione di calo preoccupante dei volumi e sottolineato la necessità di trovare risposte adeguate.
Il problema è generale e condiviso ad altre latitudini. Specie in Europa, dove, accanto alla diminuzione del traffico e alla congiuntura economica, incombe lo spettro della liberalizzazione. Poste italiane, ad esempio, ha di recente proposto ai sindacati due formule diverse, su cui sono in corso le riflessioni.
Se da un canto la società dichiara una graduale erosione del mercato in favore dei concorrenti, dall’altra registra una evoluzione. La clientela, in particolare, richiede sempre di più la consegna nella fascia pomeridiana; al tempo stesso, si assiste al crollo del recapito al sabato, in quanto ditte e studi professionali sono chiusi. Da qui il progetto di rimodulare la prestazione con profonde conseguenze organizzative per l’intera filiera, prima di tutto l’esubero di circa 10.700 dipendenti, su cui i sindacati sono già intervenuti.
Una delle ipotesi sarebbe di impostare le consegne da lunedì al venerdì tra le ore 8 e le 20 (così da sgravare la gestione degli inesitati), lasciando operativo il sabato soltanto per alcune tipologie di prodotto. Le nuove attività più commerciali potranno assorbire 1.500 persone.
L’alternativa conferma il ciclo su sei giorni, ma con importanti revisioni interne che potrebbero riposizionare suppergiù appena 170 portalettere.
In un più generale ripensamento rientra la volontà di uniformare in tutta Italia gli orari degli uffici postali. Secondo la dirigenza (ma non sono mancate le perplessità da parte dei rappresentanti dei lavoratori), l’apertura al pubblico potrebbe essere 8.15-13.45 se il turno è unico, 8.15-19 quando risulta doppio.